Ti racconto la mia musica – Quinta puntata

A volte quando ci penso torno a quel giorno, rivedo quelle luci e sento quegli odori.

Firenze. Nel primo pomeriggio sono già seduta sugli scalini del Comunale. Sola. Tempo poco arriva un ragazzo, studente fiorentino del Conservatorio – anzi fammelo scrivere minuscolo, “conservatorio” – con cui chiacchiero tanto indovinate di cosa, finché, solo molto più tardi, comincia ad arrivare gente. All’inizio qualcuno, poi la folla che si ingrossa e ci spinge sempre più schiacciandoci letteralmente al cancello; tanto che quando vengono ad aprire danno un’occhiata eloquente e decidono di far entrare da un’altra parte: “se apriamo qui la schiacciano!” mi dice il custode ed io: “non me ne importa! E’ dalle due che sono qui!!!”. Un’ultima occhiata come un ultimo saluto, e finalmente si decidono ad aprire i cancelli: fino alla biglietteria ci arrivo “trasportata”, senza toccare i piedi per terra, non certo per la gioia anche se ne avevo tanta. E con un bottone della giacca in meno, non l’ho più trovato. Raggiungo la poltroncina in galleria che manco chi ha scalato il K2 (quanto mi piaceva quella storia che leggevo nel sussidiario!). La borsa sulle ginocchia, l’atmosfera ovattata, le luci che finalmente si abbassano pian piano, e il teatro che vien giù dagli applausi, come entra quell’omino dai capelli bianchi con l’aria angelica, che si siede al piano come una piuma che si posa e inizia a suonare ad occhi chiusi. Suonare… quelli non erano suoni, ma note di un canto melodioso. L’ho sempre riconosciuto tra mille il tocco di Rubinstein: c’è l’anima dentro. E ti dimentichi dove sei e chi sei.
Infatti, con il gomito appoggiato sulle ginocchia, sono così rapita da non accorgermi che sto scivolando: cade il gomito e la borsa precipita a terra con un tonfo nel silenzio che mi circonda… non ci sono tombini in galleria, peccato!

Ho le palme delle mani rosso fuoco per convincerlo ai bis che concede con amore, finché al quarto si presenta sul palco, aspetta che l’entusiasmo si quieti, poi ci guarda e con un sorrisino: “Basta, non ce la faccio più!”: allora sì che non la smettiamo! Abbiamo sentito la voce di un angelo!

Quella è la volta che ricordo di più, e un concerto così… non ce n’è stato uno simile, in tutta la mia vita. A volte mi chiedevo se da qualche parte magari fosse nato un nuovo Rubinstein, ma non ne ho trovato mai più. Però… quando ascolto Bollani, ecco, l’emozione che sento è quella. Non è un cesellatore di fino, ma un turbine che ti prende e ti porta via, ti fa viaggiare in mondi mai visti; ed è un esecutore eccezionale. Stai a vedere che la ricerca è finita! Beh, finita mai: nella musica non si sta mai fermi.

Continuavo gli studi, magistrali e pianoforte. Purtroppo la mia vita era un disastro, ero confusa, disordinata e soprattutto rabbiosa, coltivavo un feroce complesso di inferiorità che combattevo con l’aggressività; completamente senza guida, così timida e insicura che evitavo le strade frequentate perché arrossivo al minimo sguardo, la fiducia in me stessa non sapevo nemmeno cos’era. Nonostante questo, come ho detto alle elementari ero stata la prima della classe: tutto mi risultava così facile e spontaneo che non avevo nemmeno bisogno di applicarmi poi tanto: più che temi scrivevo racconti, leggevo con una facilità insolita per l’età (avevo iniziato a tre anni…!) e soffrivo tanto quando le compagne di classe compitavano le sillabe una ad una; solo alla matematica sembravo allergica, finché mia madre mi mandò da un maestrino in pensione, il Gennai, che mi aprì un mondo meraviglioso quasi quanto la musica, poi comunicò alla mamma che le lezioni erano finite, altrimenti avrei insegnato qualcosa io a lui! Eppure è merito suo se non ho perso l’occasione di conoscere una materia così affascinante: c’è matematica nella musica e c’è musica nella matematica, dopotutto.

Niente di strano quindi se la fama di “genio” mi perseguitasse, nonostante facessi di tutto per non meritarla: studiavo – o per meglio dire leggevo – solo quello che riusciva a coinvolgermi la passione. Così anche nel pianoforte: quegli studi fini a se stessi, l’esecuzione al posto della comprensione, studiare da concertista anche se non era quello che avrei voluto fare da grande: sì, me le raccontavo le bugie, ma più che altro erano il riflesso dei desideri di mia madre, non certo dei miei. Ancora non lo sapevo, come tanto altro.

Ci arrivai comunque all’esame di licenza di teoria e solfeggio: ne avevo masticato così tanto dai quattro agli otto anni che la Caldi mi mandò da una sua amica per una “spolverata” ed infine mi portò a Lucca, dove detti la licenza insieme al compimento inferiore di pianoforte.

Non si ricorda davvero tutto minuto per minuto, ma ci sono degli episodi della vita che ti rimangono impressi come un film: seduta al banco di legno nero sai di quelli che usavano tanto tempo fa, quelli intagliati da temperini di allievi impertinenti, lapis alla mano, fogli pentagrammati davanti, insieme ai malcapitati di turno aspettavo tremante il momento fatidico. Entra l’esaminatore, il maestro Icilio Biagetti – di cui rivedo con nitidezza le sopracciglia folte e nere – si siede al piano e inizia a suonare, forse quello che sarà il dettato. Senza metter tempo in mezzo, mi affretto a buttar giù ciò che sento; e il maestro si gira, si alza, e venendo verso di me che sto ancora scrivendo a velocità supersonica: “Se qualcuno pensa di avere l’orecchio assoluto…” ma quando posa gli occhi sul mio spartito, glissa, torna al piano, dà il la e comincia a dettare battuta per battuta! Se lo sapevo prima che era solo un assaggio…! Ma non avevo sbagliato una sola nota. L’ho saputo anni dopo, cosa voleva dire “orecchio assoluto”: per me era normale “sentire” le note con il loro nome. Me lo sono semirovinato l’orecchio, con il DO mobile, ma per questo si deve “tornare” al futuro. Ossia alla prossima puntata.

2 opinioni riguardo a “Ti racconto la mia musica – Quinta puntata

  1. Vagavo su internet e l’ho trovato, un frammento di vita, tua, e di mio nonno. Quell’uomo dalle sopracciglia folte e nere. Dalla sguardo severo. Spesso mi manca, mi mancano i nostri pomeriggi in cui mi insegnava solfeggio, un po’ di musica, e mi lasciava la sua eredità di ricordi, e di emozioni. allora adolescente non capivo quanto mi sarebbe rimasto addosso tutto questo. Grazie per questo regalo

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