Ti racconto la mia musica – Quarta puntata

A volte il tragitto da e per la stazione lo facevo a piedi, e conoscevo ormai a memoria ogni singolo tratto. Anche la voce della Caldi (il nome della prof, anche se allora si diceva “insegnante” o, rivolgendosi a lei “signorina”, e il termine “prof” era ancora di là da venire) la sapevo a mente, la sentivo ad ogni passo quando studiavo, ad ogni errore.
Era di quelle che non lodava, ma a volte te lo faceva capire – molto alla larga – che non eri andata poi tanto male. Ho avuto molti anni dopo un professore di composizione della stessa tempra, e una volta che controllando un mio lavoro si fece sfuggire un “eh, non c’è male!” arrivai a casa emozionatissima e felice.
Ed era furba, molto furba. Avevo un dono, che era la “lettura a prima vista”: per chi non lo sapesse, quando nei film si vede porgere uno spartito a un pianista e questi lo prende, lo appoggia sul leggio e lo suona, senza averlo mai visto e magari conversando nel frattempo con l’interlocutore… non è vero! La musica facile ma proprio facile si legge (= “si suona”) a prima vista, naturalmente tenendo gli occhi sullo spartito. Io ero avanti con gli studi, mi stavo preparando per il quinto di pianoforte. Non ho mai capito se per protesta, per ribellione, o per cosa di altro, non studiavo. Alle elementari avevo la fama di essere la più brava. E non studiavo. Alle Medie pure. Alle Magistrali poi non se ne parli. Eppure quella fama mi perseguitava nonostante i miei sforzi per distruggerla. Il pianoforte… più andavo avanti più diventava pesante: ci stavo stretta, in uno strumento solo, sentivo il richiamo dell’orchestra anche se non lo riconoscevo. E poi lo studio con la teoria separata dalla pratica, con le ore di esercitazioni giornaliere, dalla tecnica alle scale agli studi alle sonate, con i programmi di esame che sembrano elaborati da un gruppo di sadici, distanti anni luce da un qualsiasi altro esame in qualsiasi altro tipo di scuola (ho scoperto più tardi che sono fermi ai Regi Decreti del 1939…), mi sembrava tutto questo uno strumento di tortura più che uno stimolo ad esprimersi con quella grandissima arte che è la Musica. Io suonavo perché non avevo altro, nella mia vita.
E la Caldi, che come ho detto era “furba”, se n’era accorta, anche se non interferiva. Una volta portai uno studio – mi sembra – di Cramer: lo eseguii lottando accanitamente con le pagine che tendevano a chiudersi. Arrivata alla fine la Caldi mi apostrofa:

“Tu non hai studiato!”
“Ma no, ma io… io…”
“Tu non hai studiato!”
“Io veramente… l’ho fatto no?”
“Tu non hai studiato!”
“…..Sì invece!”
“E allora perché il libro si chiude?”

Rimasi a bocca aperta, finalmente zittita. Ogni mio allievo conosce l’aneddoto e lo sa, che non mi si può fregare così.

Intanto, in attesa che la mia vera personalità uscisse allo scoperto, suonavo e ascoltavo. Il mio preferito era Chopin, ogni tanto anche Beethoven; Mozart mi sembrava troppo facile, Bach troppo freddo (quando una non capisce nulla…), anche se la Caldi era convinta che eseguissi Bach meglio degli altri autori, e al mio “non mi piace” ribatteva sempre “ti piacerà, sono sicura, quando sarai più grande”.
Come sempre, aveva ragione. Non si parli poi di Mozart, nella cui semplicità oggi sento il canto degli angeli, basti pensare all’”Ave Verum”. Come esecutore, la prima volta che ho sentito Arthur Rubinstein… è stato un colpo di fulmine. Allora i mezzi erano i dischi (in vinile) e i concerti dal vivo, tutti e due non alla portata di tutti: per un disco mettevo da parte i soldi uno sull’altro, e il difficile era poi sceglierne uno su tanti; per i concerti… dovevo aspettare e sperare. Appunto: perché un giorno, arrivò come sceso dal cielo, da parte dell’amica Ester (che anni dopo mi avrebbe fatto pronunciare la frase più famosa della mia vita), un abbonamento al Comunale di Firenze; lei disse che non poteva usufruirne per ragioni di tempo o di salute, ma ho sempre avuto il dubbio che fosse un regalo discreto. Frequentavo le Magistrali a Montopoli a quei tempi, ci andavo tutti i giorni con il pullman, tornavo alle tre del pomeriggio – quando andava bene – e mi cucinavo pasta in bianco e fettina. Quell’anno era in cartellone Rubinstein: avvisai a casa, e mi programmai il viaggio con largo anticipo. Uscita da scuola, stazione di San Romano, treno per Firenze. Di quel viaggio ricordo chiaramente – a volte si dice – la biscia che alla stazione vidi strisciare come un’onda di frequenza, ed io che mi ritrovai saltata a piedi pari su una panchina…

continua

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